Il giorno che sfiorammo l'apocalisse (seconda parte)

in #tenente3 years ago

L’incidente dell’Equinozio d’autunno
La notte del 26 settembre 1983 il Tenente Colonnello
Stanislav Petrov non avrebbe dovuto
essere in servizio all’interno del bunker Serpukhov-
15, situato sul confine occidentale
dell’Urss. Avrebbe dovuto essere la sua notte
libera, ma il collega di turno si era ammalato.
Il bunker era dotato di un avanzatissimo sistema
informatico che permetteva di monitorare le
attività missilistiche americane in tutto il mondo
e coordinare la difesa aerospaziale russa: il
Krokus. Alle ore 00,15 (ora di Mosca) si accese
una luce rossa, segno che un missile era partito.
"Tutti si girarono verso di me, aspettando un
ordine” -racconta Petrov- “Io ero come paralizzato;
ci mettemmo subito a controllare l’operatività
del sistema, ventinove livelli in tutto. Pochissimi
minuti e si accese un’altra luce, poi un’altra.
Nessun dubbio, il sistema diceva che erano in
corso lanci multipli dalla stessa base. Una nostra
comunicazione avrebbe dato ai vertici del
Paese al massimo 12 minuti. Poi sarebbe stato
troppo tardi”. Il tenente colonnello Stanislav
Petrov non era solo un militare, era anche, e
soprattutto, un ingegnere e un analista abituato
a verificare i dati ed eventualmente a metterli in
discussione. In quei fatali minuti ragionava che
non aveva alcun senso che gli Stati Uniti sferrassero
un attacco a sorpresa con solo cinque
missili, un numero irrisorio rispetto all’arsenale
dello Zio Sam, dando così modo all’Unione
Sovietica di reagire vanificando peraltro quel
vantaggio iniziale. I missili avrebbero impiegato
circa 20 minuti a raggiungere Mosca, furono i
20 minuti più lunghi per il colonnello Petrov e
per l’intera ignara umanità. Mentre gli allarmi
risuonavano all’interno del bunker, Petrov aveva
addosso gli occhi dei 120 uomini in servizio
con lui quella notte; poteva percepirne i respiri
accelerati, ne avrebbe potuto sentire battere i
cuori. Il suo martellava, aveva le tempie dolenti,
la fronte madida di un sudore gelato e nelle
proprie mani il destino del mondo. In caso di
allarme il protocollo prevedeva che il responsabile
di turno premesse semplicemente (e irreparabilmente)
un “bottone rosso” che avrebbe
informato immediatamente i vertici del Cremlino
e, come conseguenza, avrebbe dato il via ad
una massiccia e violenta controffensiva al presunto
attacco. In quella circostanza, se non si
fosse trattato di un errore del sistema, la disobbedienza
al Protocollo del Tenente Colonnello
Petrov sarebbe costata la distruzione di Mosca
senza che l’Unione Sovietica potesse fare più
nulla. I secondi passavano lunghi e cadenzati
come i passi di una marcia militare che precede
un’invasione. I minuti dilatati sembravano curvare
e accelerare in prossimità dell’arrivo dei
missili sugli obiettivi. All’improvviso tutto tacque,
gli allarmi cessarono prima dello scadere del
termine. Nessun ordigno nucleare era esploso
perchè nessun missile era mai stato lanciato.
Era stato un falso allarme, un improbabile
errore, forse causato da una rara congiunzione
astronomica tra la Terra, il Sole e il sistema
satellitare OKO o forse da un effetto ottico di
riflessi di luce sulle nuvole. Il tenente colonnello
Stanislav Petrov, vinto dagli abbracci e dalla
gratitudine dei propri compagni, dalla stanchezza
e dalla tensione che iniziava ad abbandonarlo,
si lasciò cadere su una sedia e bevve d’un
sorso un’intera bottiglia di vodka, poi dormì per
le successive 28 ore, senza interruzione, ma
qui entriamo nella leggenda. Un eroe per i compagni
e i diretti superiori, ma un insubordinato
per le alte gerarchie militari sovietiche. Per aver
contravvenuto al protocollo Petrov fu ammonito,
degradato e, infine, mandato in pensione
anticipatamente. L’episodio di cui era stato protagonista
fu coperto da segreto e dimenticato.