Davide entrò per primo.
Vivevo in un appartamento con altri 5 ragazzi, normalità ed ospitalità per noi erano concetti relativi. Ospite, era chiunque bussasse alla porta, senza distinzione verso malintenzionati ed assassini, e meritava gli venisse offerto da bere, a patto che non si formalizzasse su un ordine e pulizia preoccupantemente al limite della denuncia all’autorità sanitaria.
Aveva i capelli scuri, gli occhi profondi e la carnagione olivastra. Avrei detto fosse Siciliano o Calabrese, e infatti aveva origini Sarde.
Immediatamente dopo, entrò Daniele.
Daniele era biondino, alto e magrissimo, e dal primo sorriso mi trasmise una sensazione inquietante, che col passare dei minuti marcò sempre più.
Ci sedemmo in cucina, e gli offrii da bere. Davide mi accompagnò con il vino, Daniele si dichiarò astemio, e iniziammo a parlare. O, per meglio dire, Daniele iniziò a parlare.
Tra i presenti, infatti, lui era quello che trasmetteva un’energia incredibile, una biglia impazzita che combatteva le sue sensazioni interiori, dando la possibiltà all’entusiasmo, alla preoccupazione, alla diffidenza, e alla sicurezza di prendere parte, anche contemporaneamente, alla discussione.
-“ Cì, noi facciamo musica nostra, i chitarristi siamo io e lui (indicando Davide), e stiamo lavorando parecchio sul suono. Io ho una Stratocaster americana, mentre Davide una Yamaha Pacifica, ma non farti ingannare dal modello, gli ho fatto sostituire i pickup con un Seymour Duncan al ponte e un DiMarzio al manico. Ci siamo poi creati un’identità suonando lo stesso accordo, ma mentre io faccio il fondamentale lui fa il rivolto, o viceversa. Così il suono è più un muro, un cazzotto in faccia. Io voglio un suono, con chitarre che fanno GGG, non il solito ZZZ”
Quel “GGG”, era un suono di gola, accompagnato dalla mimica facciale e delle braccia, a suonare una chitarra immaginaria. Lo trovai divertente.
Tutto il resto del discorso, per me era zero. Tabula rasa su marchi, termini, e qualsiasi cosa avesse voluto dire fino a quel momento.
Non mi ero mai interessato a quei tecnicismi, le persone che mi avevano introdotto alla musica, suonavano con quel che avevano o con quel che gli era stato proposto rispetto alla portata delle proprie tasche, e nessuno era mai sceso a tanti dettagli. Avevo forse sentito nominare qualche marchio, ma non me ne era mai fregato niente.
Davide si limitava ad annuire, io ero imbarazzatissimo, e non sapevo come nasconderlo. Annuivo anche io, senza proferire parole che avrebbero potuto tradirmi.
Daniele continuò:
-“Te, hai mai scritto una linea vocale?”-
-“Che vuoi dire”?- chiesi.
Si girò verso Davide, stupito. La sua espressione sembrava dire “ma dove mi hai portato, questo non capisce niente”.
Davide rispose a quello sguardo, dicendo:
-“Si, me lo aveva detto che è la prima volta che si cimenta con un gruppo originale.”-
Daniele parve sorpreso, e preoccupato. L’entusiasmo, aveva lasciato il passo alla preoccupazione di stare perdendo tempo, in pochi decimi di secondo.
-“Cì, ma se te non sai nemmeno come si fa, come facciamo?”-
-“Credo che non costi nulla a nessuno di noi provare, al limite perderemo una settimana o due di tempo, e potrete cercare altre persone. Non l’ho mai fatto, mi piacerebbe provare, e se per voi non è un problema troppo grande, sono disposto a farlo”- risposi, umilmente.
Questo mio atteggiamento piacque a Daniele, che accantonò per un attimo l’espressione preoccupata, e andò avanti con il discorso, con l’espressione più speranzosa che ottimista.
-“Allora, qui c’è la cassetta, perché noi durante le prove ci registriamo col registratore che uso all’università, così poi ci riascoltiamo per capire gli errori. Te la lasciamo, e la settimana prossima facciamo una prova. Ok?”-
In musica, la costante universale, è la settimana. Sia nel piano bar che tra le band che avevo cercato di tenere su fino a quel momento, la settimana era il tempo limite per fare le cose. Non due giorni e nemmeno dieci: una settimana.
-“Certo, molto volentieri”- dissi sorridendo soddisfatto, e quasi emozionato.
-“Ma te, la macchina, ce l’hai?”- mi chiese Daniele
-“No, ho il motorino”- risposi
Via l’espressione speranzosa, vai con l’espressione preoccupata e pessimista, in un istante.
-“E allora è un problema, perché noi proviamo a casa del batterista, sia per risparmiare i soldi della sala prove, sia perché così è più comodo, non abbiamo limiti di orari”- sembrò dire ormai rassegnato, Daniele.
Casa del batterista era a ottanta chilometri da dove mi trovavo. Casa dei miei, per fare un paragone, era a centodieci chilometri, e io ci tornavo ormai solo ogni due settimane, perché era un viaggio interminabile.
-“Si, è un problema. Ma se raggiungo voi, non possiamo andare insieme?”- chiesi.
-“Cì, ma io sto fuori dal raccordo, te la senti?”- mi disse Daniele
-“Esistono i mezzi pubblici, in qualche modo farò. Dai, si può fare”- decretai.
Davide fece un mezzo sorriso, soddisfatto.
Daniele cambiò espressione tre o quattro volte, ma alla fine decise per accordarmi la fiducia, e continuammo a chiacchierare della band, di quanto fosse importante per loro, e altri discorsi da musicisti sognatori che cambieranno il mondo. Fin quando si congedarono, dandoci appuntamento alla settimana successiva.
Superato quello stress-test, rimanemmo io e quella cassetta.
Una musicassetta, probabilmente alcuni di voi non l’hanno mai vista.
Antesignana del CD, contemporanea del vinile, era uno strumento pratico per piratare i dischi degli artisti, fondamentalmente.
Un nastro magnetico, avvolto in due bobine, permetteva di duplicare un vinile o un’altra cassetta, abbastanza rapidamente, e a basso costo.
Basso costo, non vuol dire sempre bassa qualità, ma per la musicassetta significava certamente bassa fedeltà.
Questa, infatti, era si registrabile un numero infinito di volte, ma ad ogni registrazione successiva la qualità ne risentiva in maniera pesante, visto che il processo prevedeva la cancellazione della registrazione precedente in favore di quella attuale, riscrivendo e rovinando inevitabilmente il nastro.
Siccome però, una cassetta costava anche cinquemila lire, si tendeva ad utilizzarne una per decenni, lasciando il discorso qualità in secondo piano.
Non era così raro ascoltare una canzone su una musicassetta, e sentirne vagamente un’altra in sottofondo, della registrazione precedente.
Quella che lasciarono a me, dall’aspetto non sembrava proprio nuova di fabbrica.
Aveva incisa una ripresa fatta da un mini registratore (quelli che avevano un tempo i giornalisti) su una mini cassetta, nel soggiorno del batterista (il soggiorno pare sia l’ambiente predefinito per improvvisare una sala prove), e trasferita solo successivamente su una cassetta standard.
Quella che avevo fra le mani.
La inserii nello stereo appena andarono via. Ero emozionato come un bambino, la mattina del venticinque Dicembre.
Premendo play sul mio stereo, nell’ordine, sentii:
- venti secondi buoni di fruscio
- le bacchette di una batteria, che davano il quattro, ma come se provenissero da casa del vicino, e successivi trenta secondi di un gruppo che suona dentro la galleria del vento a Maranello.
- stop improvviso, con lezione universitaria di microbiologia, per qualche minuto.
- di nuovo le bacchette, di nuovo il quattro, di nuovo il gruppo che suonava in galleria del vento.
- fine della canzone, rumore assordante di mano che traffica con il registratore, lezione di microbiologia fino a fine nastro.
Era quello dunque.
Il tesoro di Eldorado, il brano originale che avrebbe cambiato il mondo, era nascosto in quel nastro dalla qualità abominevole, tra i vicoli di una galleria del vento, lungo calcoli di aerodinamica.
Bisognava solo armarsi di immaginazione, cercare di capire dove iniziasse la canzone e in che parti fosse divisa, e affidarsi all’estro personale, per donare al diamante grezzo la lucentezza di una linea vocale efficace, e di un testo profondo che incastonasse l’opera.
Io dovevo ascoltare una canzone inedita, senza cantato, da quella registrazione, ed era Daniele quello ad essere preoccupato?
Non ce l’avrei mai fatta, ascoltare quel pocopiùcherumore, era sconfortante.
Se fosse stato un pezzo conosciuto, a bassa qualità, più o meno avrei potuto anche percepirne l’andamento. Ma così, senza sapere quale fosse la strofa, il ritornello, e senza possibilità certa di averlo compreso, era una prova davvero troppo ardua.
Per tutta la settimana, ascoltai quel brano decine, centinaia di volte.
Una sera come tante, complice probabilmente il relax con cui eravamo soliti affrontare la serata in casa, mi chiusi in camera, e provai a cantare sopra quel rumore, non facendomi guidare dall’ansia, ma dalla strafottenza.
Decisi in autonomia quando cantare, quando no, quando far partire una variazione, insomma mi presi tutte le libertà che volevo. Tanto, al limite, avrebbe fatto schifo.
Invece funzionò. Trovai una linea vocale, che non solo aveva senso, ma cavoli se mi piaceva.
Con il testo non fui altrettanto fortunato, e scrissi cose a caso. Decisi che era importante intanto dare un volto alla canzone, cantarla per come sarebbe stata. I dettagli, e il senso, gliel’avrei dato successivamente.
Chiamai Daniele, orgoglioso, e ci demmo appuntamento sotto casa sua, per andare a provare, alle venti del giorno successivo.
Roma, è cerchiata sulla cartina da una strada che si chiama Grande Raccordo Anulare. E' il recinto della città.
Chi abita dentro, è di Roma e per spostarsi con i mezzi pubblici ci mette una vita.
Chi abita fuori, è di Roma ma fuori il raccordo, e per spostarsi coi mezzi pubblici ci mette la vita che serve per muoversi dentro il raccordo, più un altro paio di vite per uscirne.
Per raggiungere casa di Daniele presi un tram, poi un trenino, poi un autobus. Ci impiegai due ore. Un’altra ora e mezza la impiegammo per raggiungere casa del batterista, io Daniele e Davide, in macchina di Daniele.
Cì, a Roma, è un'abbreviazione di ciccio. E' una forma utilizzata dai giovani per rivolgersi ad altri in maniera informale. Un ahò più intimo.
La viabilità a Roma è un mostro a cui ancora oggi gli scienziati non riescono a dare spiegazione. Il raccordo anche sarebbe una bella invenzione se non si riducesse ad un grande parcheggio durante le ore di punta. Ma vabbè, tu non parli di viabilità ma di musica. Bel post cì, ora mi aspetto la riproduzione in mp3 della tua traccia vocale.
Cì qua stasera c'è poco da scherzare. Rimarrà sulla blockchain anche questo commento, in Liverpool Memory.
RIP
Le musicassette!!! Non ci avevo riflettuto finora, ma il momento della cassetta con la registrazione doveva arrivare per forza nella tua storia!
Ero una bimba, quando si usavano cassette, stereo anni 90 e walkman! Mio cugino, lo ricordo ancora, mi regalò una cassetta con una raccolta di canzoni anni 80 e 90 fantastiche, che aveva personalmente selezionato per me; un paio sono ancora nella mia testa come se fosse ieri...e confermo, si sentivano le tracce delle registrazioni passate, a volte io e mia sorella facevamo a gara per intuire la traccia sottostante ai brani che ascoltavamo, competizione da nastro che i giovinastri di oggi non possono comprendere. La vecchiaia xD
Vai Cì, falli neri col tuo sound! ;)
non raccontiamole queste cose Fra, che qui ci sono un sacco di giovani, che potrebbero iniziare a darci del lei, e sappiamo benissimo quanto questa cosa sia sgradevole.
Il prossimo post lo riempirò di termini moderni, e di canzoni di Fedez, e mi farò appellare nella variante moderna di Cì: Zì
Grazie :*
Cì ora sono curiosa di sapere cosa ti hanno detto dopo un viaggio del genere!
Le cose migliori vengono sempre per caso e vedo che anche per te è stato così.
Avanti tutta, attendo il prossimo capitolo! 😉
mi hanno detto: ........
mi dispiace, non te lo posso dire! :P