K. si sente strano oggi, è fermo, docile, in catalessi, i muscoli sono paralizzati. La calce ha bloccato in qualche mattone le sue emozioni, costruisce muri e passa il resto della vita a pensare a come buttarli giù. Pensa troppo, sarà questo il problema. Tutte le altre lettere dell’alfabeto dalla A alla Z, gli hanno detto: “tranquillo è solo un periodo, passerà, distraiti”.
K. inizia a pensare che un intero mondo di lettere non possa capirlo, prova ad ordinarle in modo da scrivere qualche frase, le dispone in tutti i modi possibili, però compare sempre la stessa frase:
“Non importa in quanti siate, non mi sento capito, aiuto ho paura.”
È stanco di cambiare e sostituire simboli per ritrovarsi sempre di fronte allo stesso problema, capisce che il demone del malessere è nella sua carne non in ciò che lo circonda.
K. fissa il muro, ma il suo cervello non è connesso, non riesce a ragionare vede l’universo girare come una trottola e lui incapace di afferrare un lembo di quella pelle astrale.
Prova una solitudine antica, prende tavolozza e pennello e dipinge un grosso arcobaleno nato da una pioggia di sangue che ha coperto la terra e la sua fragile figura; appende il quadro in casa e invita A. B. C. D. E. F. G. H. I. L. M. N. O. P. Q. R. S. T. U. V. Z. a vedere la sua opera.
Tutti vedono una tela bianca.
K. piange, lui, ci vede tanti colori, forse molta tristezza, ma pur sempre un qualcosa di personale che esiste e, invece, per l’ennesima volta non ha fatto breccia tra il pubblico, non è stato capace di esprimersi e di essere compreso.
È stanco e sconvolto, non ha più voglia di disegnare, inizia a credere di essere folle e pensa di disegnare quando in realtà non lo sta facendo, non sa più a chi dare ragione, la confusione lo sommerge, vorrebbe solo respirare l’approvazione per una volta.
K. ha scavato troppo in fondo è sceso in basso, ha visto gli abissi, senza essere un pesce abissale è solo un pesce rosso fuori posto in un oceano di animali abituati a nutrirsi di avanzi e poca luce.
Il suo posto è in superfice con i suoi simili, ma una parte della sua anima è destinata ad essere un peso che lo spinge a fondo, sente il fiato mancare, il terrore lo pervade.
Non è mai una buona idea vedere il fondale, nonostante esso ti permetta di capire meglio la parte più superficiale e ti faccia intravedere la miriade di correnti che compongono i mari.
Essere consapevoli, in un’esistenza che tende a vedere poche strade, mentre, tu, vedi milioni di sentieri, non è semplice.
K. fa il girotondo.
Giro giro tondo casca il mondo.
Gira e gira, fa le piroette su se stesso, non concludendo nulla, era meglio essere miope, almeno un percorso, per sbaglio, l’avrebbe intrapreso, invece che tormentarsi tra i miliardi di verità e possibilità.
K. rimugina all’infinito: la testa fuma ed è solo, ma non riesce ad interrompere i loop disfunzionali.
Si domanda: “Ma… se la scienza è composta di una parte razionale e da una empirica, lo psichiatra come fa a capire come mi sento, se gli manca la porzione riguardante l’esperienza, non avendo mai provato le mie percezioni con la sua pelle?”
K. è stanco della solita risposta: “lui ha studiato come funziona l’uomo”, il corso di come si vive non lo ha mai visto all’università, doveva essere distratto.
K. è fatto così, cerca di capire e ogni volta che si pone un quesito o non gli rispondono o lo demonizzano e lo etichettano come strano, alcune volte è orgoglioso e continua a pensare di avere ragione, altre si lascia andare al dolce abbraccio della depressione.
Una pastiglia per ogni evenienza ti farà risorgere, si chiede chi sia davvero il malato, un pianeta che crede al bianco e il nero o chi come lui ama vedere tanti colori.
K. ha divorziato con tutto l’alfabeto, ha perso il controllo ha rotto casa, lanciato i vestiti, fatto a pezzi i mobili, era frustrato, furioso e stanco di urlare e di non farsi mai sentire, ha deciso ed è decisamente deciso della sua decisione: odio le “D.”
Riflette meglio e scopre che gli sta antipatica, anche, la “A.” e la “B.”
Dopo ore di pensieri intesi scopre che non le sopporta più tutto l’alfabeto.
Dentro di sé sa perfettamente che è una scusa. Non le odia davvero, è solo infastidito da essere diverso e di non riuscire a comunicare con loro, vorrebbe disperatamente avere un contatto, ma non è in grado.
K. si domanda: “È il destino e la vita che ci rendono compatibili oppure la colpa è mia di avere rifiutato di stringere amicizia con le ventuno lettere dell’alfabeto?”
La sua testa esplode, la questione lo dilania e il caos si diffonde per le vene. Ricomincia a fissare le pareti come morto, il cervello non risponde ai suoi ordini è in uno stato comatoso, nonostante sia vivo.
Nella testa di K. inizia a presentarsi, senza l’invito, un pensiero contorto: ricorda che tutti gli dicevano di distrarsi, solo che il suo concetto di distrazione, non è esattamente sano e si trova nel collo di una bottiglia.
In preda ad un istinto primordiale, diventa una scimmia batte la clava sulla porta, cammina a quattro zampe e corre al primo rivenditore di alcool.
La sua sete è violenta e si alimenta di tutte le sue paure, beve per dimenticarle, nello stesso tempo alimentandone delle nuove, ma per due ore è pronto a morire e diventa coraggioso.
K. metta la testa nel cappuccio e trema aspettando il suo turno in coda, ha un unico articolo da far battere dalla cassiera: una bottiglia.
Non importa cosa ci sia dentro ma c’è scritto 40 gradi sull’etichetta. Rapida e indolore.
Grossi sorsi, così si beve, tutto alla “goccia” finché il fegato non si spappola.
L’ha visto fare dagli imprenditori, dai preti, dagli amici, dai parenti, dall’operario, dall’impiegato e da ogni estrazione sociale, è il metodo più comune per esorcizzare la sofferenza, nel malessere non ci sono divisioni economiche, religiose o di sorta, siamo quasi più simpatici e empatici quando stiamo male di quando siamo sani.
K. ha finito la bottiglia e i suoi mostri si svegliano, è un’altra persona o, semplicemente, è la proiezione di chi vorrebbe essere. Diventa aggressivo, nella sua testa insicura pensa che picchiarsi lo faccia sembrare forte per un giorno, non pensa alle conseguenze.
Da freddo è perfettamente cosciente che sia sbagliato, l’accidia è il suo peccato, i postumi e l’imbarazzo mattutino il suo contrappasso.
K. ha chiuso in faccia la porta a tutto l’alfabeto convito di essere speciale e unico o per lo meno speranzoso di avere qualche qualità.
Aristotele la sapeva lunga…
“l'uomo è un animale sociale”: tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società.
K, Avendo rotto con 21 elementi cerca un senso di appartenenza nei numeri, gli hanno detto che sono illimitati e nell’infinito potrebbe trovarsi a suo agio.
Pensa:
“Le lettere sono limitate e convenzionali per natura, ma i numeri sono meno istituzionali essendo irraggiungibili nel loro tendere all’ignoto”.
Vuole viaggiare sino all’ultimo per vedere se c’è un posto al di là dei confini che possa chiamarlo: casa.
Il giorno dopo K. si veste velocemente, mette le scarpe e corre all’anagrafe.
La burocrazia l’aveva sempre odiata: code, personale incapace, lentezza, istituzione e poca fantasia. Non era, di certo, il suo posto preferito.
Entra nel comune della sua città e chiede ad una signora abituata a ragionare come un computer, dove poteva cambiare il suo nome in: “∞”.
L’addetta lo fissa sbalordita e gli dice che quello era un simbolo e non sarebbe stato possibile utilizzarlo come appellativo.
K. riflette:
“Sarai furba te a spendere la tua vita tra protocolli e fogli di carta inutili, io sono infinito e non mi interessa la tua opinione, sarò matto, non mi interessa, pensalo, ma io sono il cavolo che mi pare e voglio essere infinito!”
La donna gli consegna i fogli per sbrigare la pratica, K. aspetta il suo turno tra una mareggiata ambulante di scartoffie e pratiche senza significato.
È semplicemente un gesto, ma crede che lo aiuterà a spezzare le catene di un mondo di sole 21 lettere che percepisce come riduttivo, i vestiti che hanno disegnato per lui sono fatti da sarti con poca immaginazione.
Arriva il suo turno: un uomo calvo e con la pancetta gli chiede scocciato quale pratica volesse sbrigare. K gli risponde: “sono venuto per cambiare il nome in “∞”.
L’impiegato è riluttante ad eseguire il comando, dopo una battaglia filosofica si accordano sull’utilizzare, invece, che il simbolo la parola: “infinito”. Era, comunque, un risultato.
K. ora non faceva parte dell’alfabeto, aveva cambiato famiglia entrando in quella dei numeri, sconfinata e ricca di possibilità. Lui non aveva mai creduto ad una verità univoca e solo nell’eterno si poteva trovare bene.
K. ora è Infinito, vola in un mondo senza preconcetti e freni ha posato per sempre la bottiglia, ora è libero di spaziare senza regole dove vuole. I suoi dipinti che prima erano per la maggioranza tele bianche, ora, che la platea è sconfinata, vengono apprezzati da una porzione di essa. Bastava solo cambiare prospettiva.
K. e Infinito, cari signori e care signore, signorini e signorine, non esistono, sono frutto delle malate speranze di Carlo, che prega ogni giorno di essere fuori dagli schemi e passare il confine ed essere finalmente felice.
Carlo la notte ha incubi atroci e sogni introspettivi che lo tormentano e la sera scorsa ha partorito il suo desiderio di rivolta, ma nella vita reale è solo un povero impiegato obbligato a doveri che lo disgustano e per le quali non è, nemmeno, portato, ma deve omologarsi o morirà di fame solo.
Carlo non è mai andato in comune, non ha mai fatto una follia, è troppo pavido per distinguersi, ha il terrore di rimanere isolato, dunque, gli rimane la fantasia.
Non gli possono controllare i pensieri, non esiste una polizia che possa indagare tra le sue meningi e allora sogna tutto quello che non ha il coraggio di fare.
Carlo, perdonatemi le ripetizioni, ma delle volte è giusto sentire l’eco e il peso delle parole che si ripetono come frustate contro gli occhi dei lettori e schioccano, l’italiano mi perdonerà, sono abbastanza sicuro. In fondo la forma è solo una sciocca etichetta che non può coprire i contenuti.
Carlo sente di essere un vascello nelle onde della tempesta con il timone rotto, sballottato da i marosi che lo muovono come se fosse una medusa. Pesandoci bene, lui, è una medusa innocua e indifesa ma letale se toccata, sempre, pronta ad esplodere:
sorride, parla, si comporta bene, ma al momento di dormire fantastica senza freni e mostra la sua vera natura.
La sua barca in mezzo alle onde si sente perseguitata, sotto il mare spunta la figura oscura di un enorme piovra. I tentacoli marci spuntano dalle creste spumose e si conficcano nel legno dell’imbarcazione e la perforano senza pietà strappandogli la carne.
La piovra è la sintesi della sua ansia e la sua frustrazione mischiate all’inchiostro delle sue paure più profonde che prendono il vascello e lo trascinano in fondo sempre più giù.
Avreste mai pensato che il vostro collega con cui avete pranzato milioni di volte fosse capace di elaborare cose simili, ora, capite quanta gente potrebbe essere nei profondi meandri dell’inferno senza che nemmeno vi possiate accorgere di ciò.
Carlo ama i pirati, l’idea della folle anarchia lo ha sempre attratto e sogna di tagliare i tentacoli con la sua spada e di poter raccontare in qualche bettola le sue imprese, ma è solo davanti alla scrivania a scrivere email, a perdere, ogni giorno di più, lo stimolo ad essere creativo.
Gli hanno insegnato che esistono solo pochi percorsi da seguire e non ha il coraggio di lasciare il sentiero e di spezzare le catene che lo rilegano ad una vita che odia. Condannato dal mistero del non sapersi addatare.
Quanti Carlo ci sono al mondo?
Si chiamano Maria, Chiara, Marco, Matteo, Luca ecc. ridono mentre ardono a fuoco lento, bloccati su rotaie non progettate per chi nell’animo è un aereo che vuole volare verso l’infinito.
Vogliono affacciarsi dai finestrini della cabina di pilotaggio e salutare per sempre le ancore che gli attaccavano a delle casacche e missioni vuote che non gli appartenevano.
Tutti moriremo, almeno, un giro da piloti lasciatelo fare. Questa è una preghiera, un’invocazione, un lamento un canto, uno scarabocchio.
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