Fatti, bufale e cialtronerie su COVID-19 – Zangrillo e il virus clinicamente morto

Dopo aver speso parecchio tempo impegnato a cercare di fare un po’ di chiarezza sulle vicende legate al COVID-19, ho deciso di prendermi un lungo periodo di pausa. Purtroppo, nonostante l’impegno profuso da molti, ho notato, con il passare dei giorni e il protrarsi della quarantena, che le teorie più stupide e assurde continuavano non solo ad avere un certo seguito, ma riuscivano persino ad accrescere i propri seguaci. Non nascondo che questo mi ha creato un certo sconforto, e ha fatto nascere la necessità di fermarsi un attimo per tirare il fiato e riprendere aria. Dopo aver dedicato tanto alla scienza, infatti, è triste vedere come questa venga bistrattata durante un evento, come questa pandemia, in cui dovrebbe rivestire (ovviamente insieme ad altre discipline) un ruolo predominante.

In questi giorni, però, mi è sembrato essere giunto il giusto momento per rimettersi a scrivere qualcosa. Stiamo vivendo un momento particolarmente delicato, e dalle nostre azioni durante i prossimi due o tre mesi dipenderà, molto probabilmente, l’andamento del COVID-19 durante la prossima stagione fredda. Questo rende la discussione pubblica particolarmente delicata, e oggi più che mai è necessario che gli scienziati prestino particolare attenzione alle loro dichiarazioni, così da passare un messaggio utile e corretto alla popolazione. Non necessariamente un “pensiero unico”, come molti sostengono, ma un messaggio onesto e ricco di informazione sana, che permetta alle persone di comprendere e agire di conseguenza.

Purtroppo, almeno del mio punto di vista, questo non sta accadendo. Ogni giorno la buona comunicazione viene accantonata in favore di dichiarazioni ambigue, e talvolta false, utili solo a guadagnare visibilità. È il caso, senza ombra di dubbio, dei tanti cialtroni e mitomani che siamo stati costretti a veder sbraitare nelle ultime settimane, tra cui i vari Tarro, Montagnier, De Donno e Bacco. Ma è il caso anche di alcuni professionisti considerati più “seri”, che non hanno saputo resistere al richiamo della notorietà, e si sono lanciati in modo incosciente in dichiarazioni sciocche e pericolose.

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Un virus clinicamente morto

Negli ultimi giorni, i professori del San Raffaele di Milano, Alberto Zangrillo e Massimo Clementi, stanno infiammando il dibattito pubblico, sostenendo che il SARS-CoV-2 sia ormai clinicamente morto, poiché si registra un progressivo svuotamento delle terapie intensive e non vengono segnalati nuovi accessi ai pronto soccorso da parte di pazienti in situazioni gravi.

Chiariamo subito un primo elemento. È innegabile che, soprattutto nell’ultimo mese, qualcosa sia cambiato, e che il profilo clinico del COVID-19 appaia ora molto meno preoccupante. Su questo il professor Zangrillo ha ragione. Sostenere però che il virus sia clinicamente morto è un grande azzardo, per diversi motivi.
Il virus non è affatto scomparso. È ancora qui, e in alcune regioni circola con numeri che ci spingono a tenere alta la guardia. E anche se in Italia la situazione sembra decisamente migliorare, è evidente che esistono aree del mondo in cui il virus contagia e uccide ancora con grande forza. Definirlo “morto” sembra francamente un po’ ingenuo. E no, non serve a nulla nascondersi dietro la precisazione “clinicamente morto”, perché sappiamo bene, e confido che lo sappia anche il professore, che la maggior parte delle persone non noterà o non comprenderà il significato di questa parola, giungendo ad una conclusione sbagliata.

Le parole del professor Zangrillo non sono comunque campate per aria, ma nascono dall’osservazione clinica di una minor gravità dei sintomi e da una ricerca a firma del professor Massimo Clementi nella quale si evidenzia come la carica virale nei tamponi di oggi sia notevolmente inferiore rispetto ai tamponi di due mesi fa. Questo ha portato i due a formulare discutibili ipotesi circa una presunta modificazione del modo in cui il virus si rapporta con il nostro organismo, arrivando a considerare la possibilità che questo replichi con più fatica rispetto a prima, per un fenomeno di co-adattamento.

Sebbene questo non possa essere totalmente escluso, appare comunque disonesto non citare, piuttosto, due elementi chiari e tangibili che hanno sicuramente contribuito al miglioramento della situazione: il distanziamento sociale e l’arrivo della bella stagione.
Per quanto riguarda il distanziamento sociale, è importante sottolineare che già ad aprile era stata osservata una correlazione tra carica virale e importanza dei sintomi: una maggior carica virale era spesso associata a soggetti gravi. Il distanziamento sociale ha sicuramente “diluito” la quantità di virus in grado di circolare nell’ambiente, e l’esposizione delle persone a “dosi” minori di SARS-CoV-2 potrebbe aver condotto alla manifestazione di un COVID-19 meno grave. Anche il professor Crisanti in una recente intervista ha parlato di questo meccanismo.
L’arrivo della bella stagione, invece, ha sicuramente modificato in modo importante le nostre abitudini sociali aiutandoci da una parte a rendere ancora più efficace il distanziamento (finestre aperte e maggior ricambio d’aria nei luoghi chiusi), e dall’altro causando nel nostro organismo alcune modificazioni fisiologiche che spesso vengono collegate ad un’aumentata resistenza alle sindromi influenzali (miglioramento dello stato delle mucose grazie all’aria più umida).
Certo, il virus potrebbe anche essere mutato divenendo più “buono”, ma ad oggi non esiste nessuna evidenza a riguardo. La comunità scientifica mondiale sta monitorando costantemente la situazione, e abbiamo ormai sequenziato alcune migliaia di volta il genoma del SARS-CoV-2, trovando solo piccole mutazioni che non sembrano averne alterato il funzionamento. Bisogna infatti ricordare che i coronavirus, a differenza di altri virus a RNA, dispongono di un sistema di riparazione dell’informazione genetica, e per tanto mutano in modo sensibile con una frequenza abbastanza bassa.

Vorrei analizzare, infine, un ultimo elemento che mi porta a credere che Zangrillo e Clementi siano in malafede, e che le loro dichiarazioni nascondano più che altro il desiderio di far parlare di sé. Ovviamente parlo di malafede perché l’alternativa sarebbe ben più grave, e obbligherebbe il Ministero dell’Istruzione a considerare la possibilità di revocare i titoli di laurea a coloro che mostrino una chiara non conoscenza di una determinata materia.
Riporto quindi le parole del professor Clementi:

Possiamo affermare che Sars-CoV-2 oggi replica meno, ma non abbiamo certezza sulle origini del fenomeno. Un’ipotesi è che si tratti di un co-adattamento all’ospite, come avviene normalmente quando un virus arriva all’uomo…

Ma se ad oggi non abbiamo evidenze a supporto della teoria della mutazione del virus, e abbiamo anzi elementi che indicano il contrario, come è possibile parlare di adattamento all’ospite?
L’adattamento è un meccanismo evolutivo che permette a un organismo di “abituarsi” ad un altro, e si osserva spesso nei rapporti ospite-parassita. Ma perché questo accada sono necessarie mutazioni genetiche più o meno importanti. Non può esistere evoluzione (e quindi adattamento) senza deriva genetica. E perché le mutazioni necessarie vengano fissate nel genoma di uno dei due organismi sono necessarie alcune generazioni.
Se analizziamo la situazione, è quindi evidente che l’essere umano non può essersi in alcun modo adattato al SARS-CoV-2, poiché il nostro genoma non può modificarsi se non da una generazione all’altra. L’unico ad essere mutato, allora, può essere proprio il virus, ma come abbiamo già detto (e come ha dovuto ammettere anche lo stesso Clementi) non esistono prove a supporto di questa tesi. E senza mutazioni, appunto, è impossibile che il virus si sia adattato a noi.
Questo non significa che non possa accadere. È già capitato altre volte, e proprio con dei coronavirus. Ma quando succederà dovremmo essere in grado di identificare chiaramente l’evento.

Concludendo, ritengo che i due professori abbiano fatto notare un elemento che era già sotto gli occhi di tutti, e cioè la diminuita criticità del COVID-19 da un punto di vista clinico in questo preciso momento storico. L’inutile polemica e le improbabili spiegazioni, però, sembrano essere fatte ad hoc per afferrare un pizzico di quella notorietà che in tanti sembrano voler guadagnare grazie alla pandemia.
Quando si ricopre un ruolo di responsabilità bisogna pesare con attenzione le proprie parole e le proprie azioni. Esporsi in televisione o sui giornali significa, ahimè, essere per quei pochi minuti un divulgatore, e in un momento come questo, essere un divulgatore comporta appunto una responsabilità enorme. Se non si è in grado, ci si dovrebbe umilmente ridurre al silenzio.


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Ciao spaghetti, verso la fine di maggio è circolata la notizia che a Brescia hanno effettivamente isolato un ceppo di sars-cov-2 molto meno aggressivo di quello che circolava all'inizio, a loro dire questo nuovo ceppo impiegherebbe 4-5 giorni solo per iniziare ad attaccare le cellule in vitro, mentre l'altro in 48 ore le aveva infettate tutte.
Prendendo per buona la notizia, (non ho modo di verificarne la veridicità) è possibile che il ceppo più aggressivo proprio perchè dava sintomi più gravi fino alla morte abbia di fatto terminato di diffondersi, sia per effetto del lockdown ma anche perchè le persone infette avevano meno tempo per portarlo in giro?
Se questa ipotesi fosse plausibile significherebbe che a circolare sarebbe rimasto prevalentemente il ceppo meno aggressivo che a quanto pare possiamo gestire in maniera più efficente.

Ciao Pab! Diciamo che, in linea teorica, questo è esattamente quello che succede solitamente dopo la comparsa di un nuovo virus... Ed è molto probabile che stia accadendo o accadrà anche col SARS-CoV-2.

Riguardo il lavoro di Brescia, però, ho qualche dubbio. Avevo seguito la notizia, e se non ricordo male partiva dalle stesse evidenze di cui parla Zangrillo, cioè da tamponi orofaringei che registravano una bassa carica virale; da qui la supposizione che ci si trovasse davanti ad un nuovo ceppo meno virulento. In realtà poi nessuno ne ha più parlato però, quindi immagino che l'eventuale sequenziamento non abbia restituito i dati attesi... Altrimenti sarebbero stati subito pubblicati. Diciamo che avrebbero fatto a gara per pubblicare una scoperta del genere.

Non escluderei comunque che in questi mesi siano emersi diversi nuovi ceppi con caratteristiche leggermente differenti. Ma sembra che quello più "forte", e quindi quello che poi si presenta con frequenza quasi assoluta, resti quello originario. Dopotutto, con una percentuale così elevata di asintomatici, era già un virus quasi perfetto.

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